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Tra mondi diversi: la Gaziantep di Laura

Laura è la nostra volontaria a Gaziantep presso il progetto “EU for us” co-finanziato dal Programma del Corpo Europeo di Solidarietà dell’Unione Europea.

Cos’è un confine, cos’è una frontiera, ho avuto modo di riflettere molto sul significato di questo concetto nei tre mesi ormai passati qui a Gaziantep. Dov’è che si trova questa città? Una delle prime cose che ho fatto quando ho cercato informazioni su questo progetto è stata andare su Google Maps e calcolare la distanza dalla frontiera con la Siria e quella da Aleppo, che si trova poco più a sud, più vicina di tante altre città turche: sulla stessa schermata della mappa di Gaziantep tanti nomi di città note tramite cronache di guerra. Cosa dovevo fare?

Ero spaventata ma allo stesso tempo questa stessa paura mi spingeva a saperne di più e a fiondarmi un po’ incoscientemente in un progetto così lungo -7 mesi- e in una zona così critica. Ma avevo bisogno di partire, dopo la cerimonia di laurea triennale a luglio avevo iniziato a girovagare per vari siti di opportunità europee, presa dalla confusione totale sul mio futuro: sapevo solo che volevo fare qualcosa di bello, di diverso, magari più pratico di tutto ciò che avevo fatto prima, magari in Turchia, che, insieme al mondo arabo, è da qualche anno il mio focus di studio.

Circa tre settimane dopo un incosciente “sì”, sono scesa dall’aereo e sono stata colpita da questo caldo secco di Anatolia, in una domenica sera ricca di aspettative. Io e gli altri ragazzi partiti con me siamo stati accolti dallo staff e dai volontari di Geged in questo stesso patio da cui sto scrivendo, con un tavolo di legno e il pergolato di vite che vi si offre al di sopra…e pure queste sedie semirotte alla fine hanno un che di poetico, anche se devi davvero avere fortuna a scegliere quella che non ti farà cadere per terra o le cui viti scoperte non creeranno uno strappo nei pantaloni ad altezza schienale. Ma una piccola percentuale di rischio fa parte del gioco, no?

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Quella prima sera la città si è presentata già semiaddormentata, con serrande chiuse e luci fioche che non rivelavano i colori vibranti e chiassosi delle insegne né i vari toni di grigi degli edifici non imbiancati, che avrei scoperto i giorni e le settimane seguenti: colore e non-colore, caos e silenzio sono solo due delle tante rappresentazioni dell’essenza multiforme e sfaccettata di questo posto.

Infatti, in ogni angolo di questa città si può inspirare la compresenza di persone e realtà diverse che hanno convissuto in quest’area sin da tempi remoti e di quelle che l’hanno abitata più recentemente, valicando questo famigerato confine. Per questa ragione, Gaziantep ha infinite storie da raccontare e le condivide con te parlando in diverse lingue, alcune delle quali formate da parole e altre composte più semplicemente di gesti e abitudini; alcune che conosci e altre che ti appaiono impossibili da decifrare.

La prima settimana è servita appunto per i vari giri di ricognizione, per imparare ad orientarsi tra i posti, conoscere e riconoscere le persone e le varie attività che Geged svolge, che sono davvero tante. La maggior parte di queste attività ha come focus principale l’insegnamento dell’inglese secondo metodi informali e che definirei “amichevoli”. Ovviamente i metodi cambiano a seconda dell’età degli studenti e del loro livello: si varia da bambini delle scuole elementari a giovani adulti che studiano o che sono già inseriti nel mondo del lavoro (o che ambiscono ad entrarvi, ma sono ancora disoccupati). Generalmente vivono tutti stabilmente in città, turchi o siriani che siano.

Il “contenitore” principale è sì l’insegnamento dell’inglese, ma le situazioni cambiano decisamente l’una dall’altra: alcuni sono ragazzi coetanei a noi volontari, che sanno esprimersi quasi perfettamente e con cui è facile comunicare e parlare di qualsiasi argomento durante le pause dalle lezioni oppure bevendosi un çay (tè turco-aspettatevi di consumarne almeno due al giorno) dopo la lezione.

Altro discorso è quando entri in un’aula e al tuo “Hello” solo in due o tre rispondono e allora va bene, iniziamo da “What’s your name?” scritto bene in caratteri cubitali alla lavagna: lì speri che tutto andrà bene, in fondo insegnare le basi della lingua dovrebbe essere facile, no? Eh no. Perché poi ti rendi conto che una delle ragazze non guarda la lavagna ma chiede alle amiche cosa deve dire: perché? È scritto male, è troppo piccolo? La lavagna è troppo lontana?

_Non so leggere. _

Me lo dice in arabo: non sa leggere l’alfabeto latino, non ancora. Lo stanno imparando con il turco, non sono arrivate qui da molto tempo, ci stanno lavorando, sì, ma sono solo all’inizio.

Ero anche qui spaventata, non mi sentivo all’altezza del compito: chi sono io per affrontare una cosa del genere, per prendermi la responsabilità dell’apprendimento di ragazze così piccole, praticamente bambine?

Però, d’altronde, siamo la loro scelta migliore. Se non ci provo io che ne ho la possibilità, quante sono le probabilità che imparino anche solo qualche parolina, altrimenti?

Quante cose diamo per scontate? Quanto siamo fortunati, ricchi, sereni e spensierati, non ce ne rendiamo neppure conto: consapevolezza, questo sto imparando qui a Gaziantep.

È stata una sfida, lo è tuttora, è una sfida andare a lezione e ripetere la stessa cosa mille volte, comunicare un po’ a parole un po’ a gesti, cercare di farle stare attente spesso senza ottenere molto se non due risicati minuti di silenzio, finendo per terminare le lezioni priva di voce ed energia… Ma poi un giorno, uscendo dall’aula due/tre ragazze un po’ di corsa mi hanno salutato con un “Bye bye teacher, I love you”. Scioccata: sono tornata a casa con un sorriso fino alle orecchie. Probabilmente l’hanno detto un po’ per dire, perché l’hanno sentito dire in qualche film o canzone, ma non importa: l’affetto e la gratitudine che ti danno, anche se espressa a fatica e spesso in modo implicito, è impagabile. Nonostante i rimproveri e certe giornate più difficili ho l’impressione di essere io la beneficiaria del volontariato, quella a ricevere qualcosa da loro, molto più grande di quello che ricevono loro con le mie lezioni.

E comunque qui, tra volontari europei e locali, non si è mai soli di fronte alle difficoltà né di fronte ai piccoli successi. Una delle prime cose di cui mi sono resa conto a pochi giorni dal mio arrivo è che questa realtà è soprattutto plurale: si parla di noi, noi volontari di Geged, la nostra organizzazione, le nostre attività, i nostri problemi e le nostre soluzioni. Per me, abituata all’individualismo e alla competizione imposti un po’ dal mondo dell’università e un po’ da me stessa nelle mie precedenti esperienze, è una dimensione totalmente nuova: è qui che ho imparato a cucinare per più di 5 persone, ad avere sempre la casa piena di gente – al pranzo di Natale eravamo in 22! Ho imparato ad accogliere i nuovi volontari che arrivano anche solo per un mese, vivere nella stessa casa in 10, 15 persone per quel breve, brevissimo “short term”, parlare fino a tardi in mille lingue diverse, lavorare in gruppo, fare un passo indietro e capire le esigenze e differenze altrui, condividere esperienze, pezzi di pane, debolezze, risate… e poi anche avere la forza di sentirsi svuotati nel dire “a presto” quando ripartono, salutarli in ciabatte sulla porta di quella che è diventata casa, consapevoli di avere, da quel momento, un’altra casa in Spagna, Romania, Portogallo…Siria.

In quest’esperienza è con due realtà diverse che si impara a convivere: Geged stessa e Gaziantep, diversissime ma simili per l’eterogeneità di storie e origini delle persone che ci vivono.

Ciò che vorrei fare qui è capire questa apparentemente confusa commistione, le cui diversità e conflitti sembrano in qualche modo convergere in una caotica armonia che odora di spezie, pistacchi, caffè e torte preparate alle 2 di notte in cucina comune e risuona come il metallo che batte contro altro metallo per formare i mille oggetti esposti al çarşı, il mercato antico del centro storico.

 

Laura Zamagni