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La mia Danimarca in quattro oggetti

Secondo articolo della nostra volontaria Genny Cabas, la quale sta svolgendo il suo SVE in Danimarca.

Dicono che la mente umana sia in grado di elaborare un’immagine a una velocità 60 000 volte superiore rispetto a quella di cui ha bisogno per comprendere un concetto formulato mediante parole. Teoricamente, dunque, il mio compito di avvicinarvi alla Danimarca e alle sue bellezze (nonché alle sue stranezze) dovrebbe essersi concluso nel momento in cui ho pubblicato questa foto. Si sa, d’altra parte, che l’animo umano ama autocelebrarsi e di certo non sarò io a rappresentare l’eccezione alla regola. Perdonatemi, dunque, se per puro diletto personale mi dilungherò in chiacchiere su quello che è considerato uno dei Paesi più felici al mondo.

Gli oggetti che vedete in questa foto sono le colonne su cui si basa la mia concezione della Danimarca. Per prima cosa ho scelto una cartina geografica in segno di ammissione della mia ignoranza. Prima di trasferirmi in Scandinavia avevo sempre identificato la Danimarca con quella lingua di terra collegata alla Germania, lo Jutland. Figuratevi, poi, se potevo mai immaginare che Copenaghen potesse trovarsi su un’isola, per altro raggiungibile con un Flixbus. La verità è che la Danimarca conta più di 400 isole, di cui circa 70 abitate. Tra queste le più grandi sono collegate alla terraferma attraverso strade costruite su futuristici ponti. Quindi se, come me, sognavate romantiche traversate via mare con il vento tra i capelli, vi toccherà preservare quest’esperienza per una crociera tra i fiordi.
Non guasta, a questo punto, farvi sapere che fanno parte della superficie danese anche le isole Fær Øer, ennesimo tentativo dei Danesi di spaventare gli stranieri con nomi impronunciabili, e la Groenlandia. Quest’ultima dista quasi 3000 km dallo Jutland. La domanda sorge, dunque, spontanea: “Perché la Groenlandia non è uno Stato indipendente?”. La risposta che sono riuscita a darmi dopo due mesi è che la Danimarca è molto piccola e aggiungere qualche zero in più ai suoi 42.924 km 2 deve essere sembrato un modo per accrescere l’orgoglio nazionale.

D’altra parte, è sempre difficile comprendere l’estensione di un Paese attraverso un numero e siccome so che credermi sulla parola quando vi dico che la Danimarca è piccola è alquanto difficile, concedetemi un paragone: l’Italia si estende per 301.338 km 2 , il che significa che è approssimativamente 7 volte più grande della Danimarca. 7 volte. Ecco, questa è un’informazione che forse non avrei dovuto condividere perché se mai vi trasferirete qui sicuramente proverete il mio stesso stato di esaltazione quando, guardando una cartina geografica, mi sono accorta che con tragitti di un’ora potevo raggiungere qualunque posto. E fidatevi, questa sensazione vi permetterà di trasformarvi in megalomani che, fieri di un riscoperto e improbabile sangue vichingo nelle vene, cominciano a organizzare gite ovunque, a discapito del proprio portafogli.

Passiamo dunque a un secondo oggetto della mia immagine. Come qualsiasi fotografo amatoriale che si rispetti, ovvero come qualsiasi fotografo che quantifica il proprio successo in base al numero di like che ottiene su Instagram, ho inserito nell’inquadratura un mazzo di fiori per incattivirmi il mio pubblico. Ma attenzione. Se alla vista dei narcisi già vi eravate lasciati andare a un sorriso compiaciuto pensando che la bella stagione non ha limiti geografici, sappiate che siete sulla strada sbagliata. In realtà i fiori in questione rappresentano il simbolo dell’eterna illusione danese: l’arrivo della primavera. La primavera in Danimarca, infatti, comincia in ritardo e ogni sua apparizione in marzo è solo uno scherzo di Baldr, dio vichingo della speranza, che vuole saggiare quanta voi ne siate in grado di coltivare durante la vostra vita.

 

Fidatevi che il clima danese vi porterà a riconsiderare i vostri principi e a ripensare con pentimento a tutte le volte che avete preso in giro i turisti dall’Europa Settentrionale che in primavera si aggiravano già in magliette maniche corte guardando con un’espressione estatica un debole e tiepido sole. E questo perché qui sarete voi i primi a farlo. Non importa quello che starete facendo. Se mai un raggio di sole sfiorerà il vostro viso, abbandonerete tutto e vi precipiterete fuori ripensando ai felici momenti in cui sguazzavate nelle calde correnti del Mediterraneo. Ma poi, proprio come in quei momenti, quando all’apice dell’estasi venivate raggiunti dalle rassicuranti parole materne “Se non esci dall’acqua vengo lì e ti affogo”, qui al Nord sarete accolti da un freddo che vi entrerà nell’anima facendovi dubitare della vostra capacità di sopravvivenza.

Eppure, i Danesi sono abili ingannatori della mente umana. Lo capirete non appena vi renderete conto del numero di candele accese attorno a voi in segno di sfida all’oscurità perenne. Quindi non stupitevi se allo scoccare della mezzanotte del 21 marzo le case cominceranno a sembrare serre tropicali con vivaci fiori primaverili dappertutto.

Passiamo, dunque, al libro. No, non rappresenta il modo in cui i danesi trascorrono il tempo al di fuori del lavoro. Se così fosse stato avrei dovuto fotografare una bicicletta. Il libro pubblicato dal “Centro di Ricerca sulla Felicità” di Copenaghen (e questa non è una battuta, esiste davvero) mi permette di affrontare un pilastro della cultura danese: “hygge”. No, non ho detto “ighe”. No, nemmeno “ughe”… Vabbè, non importa. Tanto la parte più difficile non è pronunciare questa parola, ma capire che cosa ci sia dietro di essa. “Hygge” è traducibile in altre lingue con “coziness”, “koselig”, “hominess”, “gezeligheid” o “Gemütlichkeit”, ma se oserete proporre questi paragoni a un danese dovrete fare i conti con una faccia indignata e una risposta secca: “Hygge è molto di più”. Che cos’è dunque “hygge”? Questa domanda mi ha ossessionata durante i miei primi tempi qui. Se era una cosa così straordinaria, volevo assolutamente provarla sulla mia pelle, per lo meno per dare una speranza alla mia anima incontentabile che sarebbe in grado di essere infelice anche nel Paese più felice del mondo. Ho cominciato quindi a bersagliare di domande chiunque mi capitasse a tiro ed ecco il risultato della mia inchiesta: si prova “hygge” bevendo una tazza di tè caldo di fronte al camino con il proprio fidanzato, guardando la pioggia che cade con una coperta in grembo e candele attorno, trascorrendo il Natale assieme alla propria famiglia, cantando di fronte a un falò d’estate e la mia preferita… bevendo una birra dopo la partita di calcetto. Insomma “hygge” è ovunque purché si ricerchi il piacere delle piccole cose e sono sicura che ognuno di voi si è riconosciuto in almeno una di queste situazioni.

 

Come ultimo oggetto-simbolo ho scelto le mie più acerrime nemiche: le monete. La Danimarca non appartiene all’Eurozona e prevede l’uso della corona danese. La corona è stata introdotta nel Paese nel 1873 in seguito alla creazione della Unione monetaria scandinava insieme alla Norvegia e alla Svezia. Dopo la prima guerra mondiale, però, l’unione si sciolse e ogni stato adottò una valuta indipendente.
In Danimarca è raro pagare in contanti e spesso è possibile pagare solo con la carta di credito. Se però, come me, siete stati risucchiati dalla burocrazia e avete ancora difficoltà a aprire un conto in banca e non usate la vostra carta di credito nazionale per evitare alte commissioni, dovrete sapervi destreggiare con la nuova valuta e saper riconoscere le sue monete. Riconosco che vivere in un Paese con un basso livello di delinquenza ha molti vantaggi e uno di questi è affidare il portafoglio al cassiere ogni volta che vado al supermercato. Eppure non riesco a essere in collera con la corona danese. Non solo perché fare commissioni con una valuta diversa da quella a cui si è abituati permette di non rendersi conto di quanto si stia spendendo (e fidatevi in un Paese con un costo della vita molto elevato, ciò fa molto bene alla coscienza), ma anche perché le monete da 1, 2 e 5 corone sono irresistibili con il loro buco al centro. In quanto al motivo per cui siano così, ho ascoltato molte teorie: per il modo in cui un tempo le monete venivano legate su una cordicella, per essere riconoscibili ai ciechi, per non causare la morte per soffocamento a un bambino semmai le ingoiasse (…), per avere un valore equivalente al metallo utilizzato. Qualunque sia la verità, per me rimangono il motivo per cui non odio la corona danese nonostante la mia vita sarebbe stata molto più semplice se la Danimarca avesse adottato l’euro, specialmente quando vado al bar e mentre pago in contanti il cameriere si chiede se io usi ancora la carrozza con i cavalli.

 

 

Vivere all’estero mi ha insegnato che gli stereotipi spesso sono solo luoghi comuni e che ognuno di noi può ritrovare un Paese in alcuni oggetti. Si tratta di una ricerca molto personale e mi piace pensare che in realtà siano gli oggetti a scegliere noi e non viceversa. Invito tutti voi, la prossima volta che sarete all’estero, a cercare quegli oggetti che identificate con quel Paese. Vi prometto che non ve ne pentirete perché quando tornerete a casa vi faranno rivivere gli stessi profumi, le stesse emozioni e attraverso di quelli avrete una storia da raccontare. Per quanto mi riguarda, non riuscirò più a guardare una cartina geografica danese, dei narcisi, un libro su “hygge” e delle monete senza sorridere.

 

Genny Cabas