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Da un portico della Tunisia

L’esperienza di Virginia, tornata dalla Tunisia dove ha preso parte al progetto TAS – Take Action in Sousse.

Tutto è partito da qui. Da un portico della Tunisia. Quando siamo atterrate, infatti, era ormai sera. Ricordo le strade buie che vedevo dal finestrino del luage (piccolo pulmino molto comune nel paese soprattutto per i trasporto a brevi distanze) che ci portava verso la  grande casa che ci avrebbe ospitate e questo è stato il primo luogo che ho visto il giorno dopo. Il portico del quartier generale di ASED. Un luogo per me incredibilmente suggestivo, che, a ben pensarci, è stato il punto di inizio di un viaggio che mi ha portata in mille posti in un paese che nella mia vita non avrei mai pensato di visitare, ma che mi ha cambiata profondamente.

Un paese che mi ha arricchita di un altro sguardo sul mondo, e mostrato un altro mondo, incredibilmente vicino, ma straordinariamente diverso. Il mondo arabo di un paese del Maghreb.  Questo portico è stato teatro delle tante colazioni fatte insieme alle altre ragazze, dei nostri pranzi, inventati sul momento in base a ciò che avevamo a disposizione, nel tentativo di adattarci e adattare la nostra inventiva ai sapori e agli ingredienti di un paese così diverso. Noi abituate alle nostre verdure tipiche e ai nostri profumi. Eppure, questo luogo scenario di ristori quotidiani, chiacchiere e momenti di condivisione, è stato soprattutto un punto di partenza. Quel luogo di confine della casa, di tramite, di connessione dell’interno con l’esterno, che ti porta verso quell’”altrove” che esiste al di là della “zona di comfort” dell’abitazione e dell’animo; verso scenari sconosciuti, e, in questo caso, verso la conoscenza di nuovi mondi, quelli di un’altra cultura e  di un territorio fino ad allora sconosciuto. Questo portico, che ho amato così tanto da disegnarlo a matita i primi giorni, è stato il mio luogo di confine, ed è da qui che voglio partire per raccontare la storia del mio viaggio. Un viaggio di incontro con nuovi sapori, profumi, persone, culture, luoghi, che mi ha portata a tantissime consapevolezze. Un viaggio che, come tutti i cammini, è stato un viaggio di incontro con me stessa.

Il progetto TAS “Take action in Sousse” dell’associazione ASED, co – finanziato dall’Unione Europea, ha previsto diverse attività, che hanno rappresentato il cuore del progetto: l’incontro e scambio culturale con ragazzi provenienti da Turchia, Polonia, Francia e Tunisia, avvenuto principalmente grazie a serate tematiche; attività con e per la comunità, in particolare attività ricreative con i bambini in libreria e pulizia delle spiagge; immersione nella cultura tunisina attraverso workshop di vario genere, come lezioni di arabo tunisino,  di cucina, danza e calligrafia araba; e, poi, la realizzazione di un video che raccontasse uno o più aspetti della cultura del posto, uno dei progetto per me più significativi, che mi ha permesso di mettermi alla prova. Quest’ultimo per me ha rappresentato una grande sfida e una grande occasione, perché mi ha permesso di sperimentare e crescere nella comunicazione, e, soprattutto, di proporre le mie idee, comprendendo non solo che posso dargli forma, ma che possono essere accolte e arricchite dall’incontro con gli altri. Poi, la conoscenza di una cultura e un territorio vasto e incredibilmente diverso; la mia prima volta in un paese arabo; la mia prima volta in Africa; l’incontro con un punto di vista capovolto sul mondo capitalista e occidentale che merita un’attenzione particolare per l’importanza e il peso che ha avuto per me. A queste dimensioni di esperienza e sperimentazione si aggiunge, poi, la dimensione di crescita in termini di acquisizione di skills e uscita dalla comfort zone; e, poi, la dimensione di crescita umana e conoscenza di me stessa, in cui hanno giocato un ruolo fondamentale sia l’esplorazione del territorio, di luoghi che non avrei mai immaginato di vedere e l’immersione in ogni aspetto della cultura tunisina (per me una gran sorpresa perché non avevo tenuto conto del fatto che il volontariato ti da’ la grande opportunità di viaggiare); sia la convivenza ravvicinata con le persone con cui ho condiviso spazi, ambienti e momenti.

Per molti versi posso affermare che in Tunisia ci sono capitato un po’ per caso. Non immaginavo mi avrebbero scelta per il progetto e il mio obiettivo principale era quello di sperimentare e mettermi in gioco nella comunicazione del patrimonio culturale, scegliendo le possibilità offerte dai progetti di educazione non formale come punto di partenza. Ma non avevo preso in considerazione tutto il resto.  Il paese, la cultura, il continente. Così, quando ho accettato di partire sapevo per certo che mi avrebbe dato una bella spinta, che era un’uscita dalla mia comfort zone importante, ciò che stavo cercando, ma in quel momento non ero consapevole di cosa avrebbe significato per me.

Non mi ero resa conto che avrei incontrato un altro mondo. Né pensavo che mi avrebbe cambiata profondamente, che avrebbe trasformato per sempre la mia visione del mondo, dell’Europa, dell’altro, della sostenibilità, dell’educazione, della cooperazione e di me stessa, dell’impatto che posso avere sugli altri e sulla realtà. Per me che amo e studio l’antropologia è stata un’immensa lezione sull’importanza del fare e dell’incontrare davvero l’altro, perché solo “esperire” le realtà, conoscerle, farle diventare parte di te, ascoltando e assaporando, incontrando e abitando, ti da’ la possibilità di comprenderle davvero, attraverso i tuoi sensi e la tua emotività, facendoti sperimentare la vita da un’altra prospettiva. Questa esperienza ha relativizzato il mio sguardo come la lettura di nessun testo potrà mai fare, perché per quanto i libri ti possa preparare e illuminare il modo in cui vedi il mondo, non potranno mai restituirti l’esperienza della sua realtà sulla tua pelle. Così il racconto della mia esperienza si snoda in più punti,  perché ciascuno di questi temi e attività sopracitate merita un’attenzione particolare.

L’incontro con le altre culture

Punto focale, di partenza e ritorno giornaliero, è stato sempre la grande casa/ufficio di ASED. Il primo luogo di incontro con l’altro. Prima ancora di essere luogo di partenza per l’incontro con l’”esterno”, infatti, quest’immensa casa che mi ha ospitata, è stata essa stessa luogo di incontro. Durante le giornate è stato luogo di spazio e ascolto di me stessa, che mi ha dato l’opportunità di fermarmi e “darmi tempo” in un momento della mia vita in cui andavo incredibilmente di corsa; ma, soprattutto la sera, si trasformava nel primo luogo di incontro con le altre culture, con i loro suoni e i loro sapori. Qui, infatti, ho conosciuto i miei compagni di viaggio, ragazzi turchi, con i quali ho scoperto nuovi suoni, strumenti musicali e possibilità culinarie. Avendo un passato di studio agonistico della musica sono rimasta esterrefatta dalla conoscenza del baglama saz, uno strumento turco che un mio compagno suonava. Quando, poi, lui, un giorno, ha posato il suo strumento su una delle sedie del portico ho capito quanto quello fosse il mio primo vero incontro con l’altro e che era cominciato un viaggio che mi avrebbe portata a conoscere realtà inesplorate. Il mio primo impatto con la cultura turca è stato con gli odori che sentivo alzarsi dalla cucina durante il giorno, accompagnati dalla musica tradizionale turca che i ragazzi amavano ascoltare,  permettendomi di assaporare quel mondo.  La casa è stata poi luogo di conoscenza di altri compagni di viaggio, che incontravo durante le attività e che venivano da Francia e Polonia. Una delle prime attività che abbiamo condiviso è stata quella delle serate culturali. Serate tematiche in cui a rotazione un gruppo raccontava della propria nazione e della propria cultura, allestendo un banchetto di cucina tipica per tutti ed esibendosi in canti o balli tradizionali.  Per me questa è stata l’occasione di conoscere aspetti inediti anche di paesi che credevo di conoscere (come la Francia), o di paesi di fatto a me quasi completamente sconosciuti (come la Turchia e la Polonia), ma, soprattutto, di raccontare il mio paese e, così facendo, di guardarlo io stessa da altri punti di vista. Di vedermi attraverso gli occhi degli altri.

Nelle serate culturali, infatti, ho compreso di non conoscere così tanto. Ho scoperto sapori e combinazioni che non avrei mai né accostato né immaginato. Attraverso le parole degli altri ho scoperto e conosciuto i loro paesi come mai prima, acquisendo sempre più nozioni e conoscenze particolari. Perché nessuno meglio di un nativo può farti comprendere una realtà. Infatti, sono mille le cose che si scoprono parlando con le persone originarie dei luoghi, come la vera origine delle pietanze più conosciute (a me è successo con il French Toast) oppure il significato culturale di piatti tipici.

Questa grande casa, quindi, prima ancora di portarmi verso l’esterno, nel paese che mi ospitava, mi ha permesso di conoscere i mondi di altri paesi, attraverso i nativi dei luoghi, i miei compagni, che mi hanno raccontato i loro sapori e le loro tradizioni, i loro territori e le loro abitudini, mostrandomi, prima di tutto la visione del mondo che si schiude a partire dal loro sguardo culturale. Facendomi comprendere quanto sia solo attraverso l’incontro diretto con le persone di altre nazionalità che si conosce davvero un paese. Per quanto io abbia  “incontrato” gli altri paesi attraverso i loro sapori e suoni solo per una sera durante queste attività, questo mi è bastato a comprendere l’importanza dell’incontro diretto, dell’immersione nei sapori e nelle melodie. E, esplorando la Tunisia, l’avrei poi capito ancora di più.

Particolarmente significativa per me è stata anche la serata italiana, perché non solo mi ha messo alla prova nel tentativo di raccontare la mia città (Napoli) e il mio paese, ma mi ha fatto comprendere quanto sia importante non dare nulla per scontato. Credevo che tutti conoscessero tutto dell’Italia, davo per scontato che ci fosse poco da dire, al contrario, questa esperienza mi ha fatto comprendere che non è così per tutti; cose che davo per ovvie (come ad esempio che tutti conoscessero Capri) non lo sono affatto per gli altri. Allora bisogna sempre, con estrema attenzione e cura, raccontare il proprio paese, così come ciò che per noi è maggiormente significativo della nostra cultura. La cosa più bella è stato condividere questo compito con ragazze italiane provenienti da tutta Italia, che mi ha fatto conoscere meglio altre zone del mio paese, così come arricchire il loro sguardo di ciò che io avevo da raccontare. È stata la prima volta che mi sono ritrovata a parlare dell’Italia e ciò che ho provato facendolo è stato un misto di orgoglio e amore, ma anche la paura di non farlo nel modo giusto, perché con tutta me stessa volevo che a loro arrivassero le mie stesse emozioni, volevo provare a mostrargli le cose che amo del mio paese con il mio sguardo. Fortunatamente la serata italiana è stata un successo e questo ci ha portate a stupirci delle nostre capacità organizzative e culinarie. Le serate culturali sono state una grande prova per me. Da una parte hanno corroborato il mio senso di appartenenza al mio paese e, allo stesso tempo, attraverso la conoscenza delle altre culture, hanno ampliato i miei orizzonti.

Ciò che tutti hanno da darci

Durante le innumerevoli serate culturali ho imparato a conoscere meglio me stessa e la mia cultura, i sapori e le melodie degli altri, comprendendo quante cose dessi per scontato e quanto non si possa mai avere un’idea davvero completa degli altri paesi, perché ci sarà sempre qualcosa di nuovo da scoprire, da conoscere, da assaggiare, da sperimentare.

E, poi, al di là delle culture, ci sono le persone, che, pure di queste sono fatte, dei luoghi che abitano e dei canti che intonano, ma che hanno tutte la loro storia e il loro percorso e questa esperienza è stata soprattutto questo: un’incontro con altre persone. Ho compreso quanto sia vero che le persone si incontrino proprio quando hanno un immenso bisogno l’una dell’altra. Ogni singola storia, confronto, conflitto, momento di ascolto, risata mi ha aiutata a conoscere meglio me stessa attraverso gli altri, a guardare in modo diverso la mia stessa storia, ad avere maggiore stima e amore per me stessa. Mi ha aiutata a capire ciò di cui in quel momento avevo più bisogno e come sia vero che le cose accadono per noi. Senza le persone che ho incontrato il viaggio non sarebbe stato tale, nella sua dimensione trasformativa. Non mi avrebbe cambiata, messa alla prova, dato la possibilità di condividere i miei mondi con gli altri, ritrovare una rinnovata fiducia in me stessa, nelle mie capacità, nei miei talenti e negli orizzonti che posso raggiungere. Perché la condivisione è cura ed è punto di partenza.

Dietro ogni persona c’è una storia e avevo bisogno di ciascuno di loro per conoscere davvero me stessa e ciò che è importante per me, in che direzione voglio guidare la mia vita e l’unicità di ogni singola esperienza, anche quella che sembra più banale o meno significativa.  Sono grata a ciascuno di loro per avermi insegnato qualcosa di diverso sulla vita, sull’incontro con l’altro, sulle culture e sull’importanza di uscire fuori dalle proprie zone di comfort, che ci sembrano sicure, ma ci intrappolano e rendono il mondo così piccolo e stretto, da non permetterci di conoscere le nostre vastità, le nostre possibilità e cose che non sapevamo di poter amare, come nuovi sapori e luoghi, o cose che non sapevamo di poter fare, come parlare tunisino, francese e inglese nello stesso minuto. Dalle mie compagne di stanza ai vari gruppi delle diverse nazionalità, tutti mi hanno insegnato a mettermi in gioco, mi hanno permesso di guardare me stessa in modo diverso.     

 Le mie compagne italiane mi hanno incoraggiata a viaggiare in un momento in cui non ne avevo molta voglia e questo mi ha permesso di scoprire luoghi che mi sono rimasti nel cuore, come Kerkouane, le ultime rovine puniche rimaste al mondo; mi hanno fatto comprendere che posso intraprendere qualsiasi viaggio, avventura, progetto, esperienza, perché sono assolutamente capace di farlo e ho già tutto ciò di cui ho bisogno per intraprenderle. Ho compreso meglio il mio valore, le mie capacità, la mia forza, la mia creatività e tenacia. Ho capito che l’unione fa la forza, ma non devo aspettare il permesso di nessuno per cominciare. Tutto grazie a loro che mi hanno fatto capire, anche attraverso il loro esempio e la loro intraprendenza, che i limiti sono solo nella nostra mente. Spesso siamo talmente severi con noi stessi che abbiamo bisogno di guardarci con gli occhi degli altri per vedere di cosa siamo davvero capaci, cosa stiamo già realizzando nella nostra vita, quanto siamo arrivati lontano.  Una cosa è certa.       Questo breve momento della mia vita l’ho condiviso con loro. E tutte le straordinarie esperienze che abbiamo vissuto saranno per sempre nostre. Abiteremo sempre nei ricordi l’uno dell’altra e questo ha un non so che di poetico e affascinante. Ci ricorderemo sempre l’un l’altro come i compagni con i quali abbiamo condiviso l’esplorazione di luoghi unici nel loro genere, di una realtà straordinaria.

Posso dire di essere capitata in Tunisia quasi per caso, è vero, eppure era esattamente l’esperienza di cui avevo bisogno, erano esattamente le persone che avevo bisogno di incontrare ed era esattamente il posto nel mondo in cui dovevo essere in quel momento della mia vita. 

Le esperienze più significative e i loro insegnamenti

Le attività per e con la comunità sono state principalmente in libreria con i bambini e in spiaggia per la pulizia di gruppo. A questo si sono aggiunti i workshop di cultura tunisina e alcuni incontri per me importanti con artigiane del luogo, che ci hanno permesso di imparare dai nativi alcune pratiche tradizionali. 

La cultura tunisina è una cultura che ha ancora molto in sé delle antiche tradizioni. Un po’ come in Italia accade nelle realtà più rurali, in cui si conserva il ricordo di un mondo e di pratiche antiche. Ho sentito molto l’autenticità dei luoghi, alcuni più veri di altri. Un’autenticità che si perde nelle luci sfavillanti e pretenziose delle zone turistiche, dove si dimentica che la forza evocativa dei luoghi e, quindi, la loro attrattiva per le persone è, e sarà sempre, nell’autenticità, non solo nei monumenti da cartolina, ma nella vita vera che si tramanda pur trasformandosi incessantemente.

Tra le esperienze più significative che ho vissuto con la comunità c’è sicuramente l’esperienza nella biblioteca di Akouda. Ci andavamo di domenica mattina e trovavamo i bambini studiare e ripetere circondati da libri di tutte le lingue e su i più svariati temi. Una di quelle domeniche, con le altre ragazze italiane, abbiamo coinvolto i bambini in un quiz a premi sulla cultura italiana. Per l’occasione ho disegnato immagini relative ai prodotti tipici italiani e alla bandiera italiana per tutti loro, oltre alla cartina dell’Italia per raccontare loro il nostro paese. Una delle cose più belle che questo volontariato mi ha dato, infatti, è stata quella di tornare a disegnare e, attraverso il racconto all’altro, di prendere consapevolezza dell’unicità del mio paese.

I bambini erano entusiasti del nostro quiz, estremamente coinvolti e partecipi. Mi ha molto colpito la loro gentilezza, educazione e dolcezza, che raramente ho trovato in dei ragazzi. La curiosità e il rispetto nei nostri confronti. La felicità di ricevere visitatori dall’Europa, da altre realtà e mondi. Mi ha stupito come la nostra semplice presenza dava loro nuovi esempi, nuovi modelli. Già il solo essere lì ampliava il loro mondo. Il quiz italiano che abbiamo ideato era a premi e tra questi c’erano anche alcuni oggetti che ho portato dall’Italia e che appartenevano alla mia storia. Peluche, quaderni nuovi particolari che, invece di buttare, ho deciso di regalare a loro. Aver scelto di donare a loro qualcosa che avevo mi rende felice, è stato il modo più bello per trasformare in qualcosa di nuovo oggetti che avevano fatto parte della mia vita.                                                                                           

no dei ricordi più belli che ho di quella biblioteca è legato a una bambina. Un giorno lei venne da me chiedendomi qualcosa in arabo. Non parlava né in francese né in inglese e il mio arabo non era abbastanza per capirla. Così chiesi ad un altro volontario tunisino di aiutarmi a tradurre le sue parole. La sua richiesta era tanto semplice quanto inaspettata: voleva fare una foto con me. In quel momento sono rimasta esterrefatta. Non avevo fatto niente di che per giustificare quella richiesta. Ero stata lì solo una volta e non mi capacitavo del perché di quanto mi stesse chiedendo. Quel giorno mi sono resa conto dell’insospettabile importanza che possiamo avere per gli altri. Di quanto si può dare semplicemente essendo sé stessi, con la propria presenza e la propria energia. Ogni volta che sono andata lì c’era lei, che nelle foto si metteva sempre accanto a me.

Oggi mi rendo conto che con quel gesto voleva in qualche modo essere nei miei ricordi, importante anche per me, indelebile in una foto. Non ho idea di cosa ho rappresentato per lei e avrei tanto voluto dare di più a tutti loro, ma la lingua mi limitava, cercavo in tutti i modi di farmi capire, ma senza riuscirci. Mi sentivo attrarre bambini come una calamita, perché, come accadeva con gli altri, cercavano in me una guida, qualcuno con cui fare cose. Eppure avrei tanto voluto parlare con loro. Quando abbiamo celebrato la giornata dell’albero piantando giovani piantine all’ingresso della scuola, tante bambine mi hanno circondata e leggevano i miei gesti per capire come muoversi. Alla fine abbiamo fatto una foto tutte insieme, perché insieme avevano toccato la terra e dato casa a una giovane pianta. Ci eravamo prese cura di lei insieme. Ricorderò per sempre i loro sorrisi e loro occhi, pieni di meraviglia, sincerità, ricchi di uno sguardo ingenuo e genuino sulla vita. L’ultimo giorno volevo dire loro qualcosa di significativo, qualcosa che potesse rimanere con loro per sempre e in cui, magari, avrebbero creduto davvero, proprio perché detto da qualcuno che loro stimavano perché proveniente da un altrove mitizzato come quello dell’Europa. Così, non sapendo come fare, ho preso il telefono e usato il traduttore. Il nostro incontro fatto di silenzi, sguardi carichi del desiderio di parlarsi, di condividere e della gioia di incontrarsi, ha cominciato ad arricchirsi di parole. Improvvisamente mi hanno circondata, e ci siamo ritrovate tutte accalcate attorno al telefono. Ho detto loro di non smettere mai di credere in loro stesse. Ho provato in tutti i modi e con mille parole a fortificare la loro autostima, l’idea del loro valore, in un mondo che spesso penalizza le donne. Ho pensato tanto al loro mondo e a come può essere più difficile da vivere per una donna rispetto al mio. E ho pensato a ciò che anche io avrei voluto ascoltare da bambina:“Non smettete mai di credere in voi stesse. Tenete sempre bene a mente il vostro valore e che potete arrivare dovunque vogliate. Siete delle ragazze straordinarie. Sono stata felice di avervi conosciute. Mi dispiace salutarvi. Avrei voluto spendere altro tempo con voi, ma spero con tutto il mio cuore di rincontrarvi nella mia vita, da qualche parte nel mondo. “ Ho sentito il bisogno di dirgli quante più parole possibili e ho provato come mai prima nella mia vita la morsa dolorosa dell’incomunicabilità, di quel profondo desiderio di parlarsi che leggevo anche nei loro occhi, e di non riuscire a farlo. Quando le vedevo così impazienti di leggere sul telefono ciò che avevo da dire loro ho capito ancora di più quanto desiderassero ascoltarmi e parlare. La forza della loro risposta l’ho sentita nei loro abbracci, nei loro occhi, nel loro desiderio di salutarmi prima di andare, nel loro dispiacere nel sapere che era il mio ultimo giorno lì. 

Ciò che mi hanno insegnato queste bambine e bambini è incommensurabile. Mi hanno insegnato quanto spesso si da’ senza rendersene conto. Quanto si possa essere significativi e importanti per gli altri senza accorgersene. Mi hanno ricordato come bisogna ascoltare, come ci si può parlare senza le parole. Mi hanno ricordato che nella vita bisogna coltivare sempre quello sguardo genuino sul mondo, questo essere protesi all’incontro con l’altro, con meraviglia e gioia di conoscere. Mi hanno permesso di sperimentare la sofferenza dell’incomunicabilità, ma anche di trovare soluzioni a qualsiasi ostacolo, per il desiderio di capirsi e, soprattutto, che posso trovare soluzioni.  La  foto sopra, infatti, esemplifica quel desiderio di comprendersi, di parlarsi, di conoscersi, di incontrarsi non solo fisicamente ma con l’animo, incontro di cui quasi sempre le parole sono porta necessaria, ma che comincia già con i gesti e con gli sguardi che precedono le parole. Non so se si ricorderanno di me, ma io non dimenticherò mai loro. Mi hanno permesso di comprendere come è importante la nostra presenza nel mondo, quanto ciò che facciamo, anche se per noi può essere poco, può avere un immenso valore per gli altri, essere profondamente significativo. Quanto  basta poco per dare, quanto possiamo fare la differenza con un piccolo gesto e quanto siano i gesti più semplici e genuini ad avere un impatto maggiore sugli altri, ma anche su noi stessi. Quelle ragazze mi hanno dato tanto senza saperlo. Ciò che ho imparato da loro in quei silenzi è immensamente più grande di ciò che ho ricevuto da altri con mille parole.

Un’altra esperienza particolarmente significativa  per me  è stata quella della pulizia della spiaggia. Pur essendo molto attiva e molto informata su tutto ciò che riguarda la sostenibilità non mi era mai capitato di pulire una spiaggia. Al massimo mi è capitato spesso di raccogliere la spazzatura mentre camminavo per strada in luoghi di vacanza e non, nei centri storici ad esempio, ma mai in spiaggia. Questa attività ha cambiato radicalmente la mia mente e credo che ogni scuola e comunità dovrebbe organizzare attività di questo tipo, perché, appunto, come ho imparato proprio grazie al progetto TAS, è l’esperienza diretta con la realtà che trasforma le nostre consapevolezze. Possiamo acquisire tutte le nozioni che vogliamo e avere una grande sensibilità, ma bisogna toccare, entrare in contatto diretto con le cose per comprenderle davvero.  Quando mi sono ritrovata a raccogliere la plastica dalla sabbia, con davanti a me quell’immenso mare blu, mi sono resa conto della potenza di ogni singola azione. Raccoglievo e mi rendevo conto dell’impatto delle mie azioni, di ciò che stavo realizzando. Mi voltavo a guardare i luoghi che avevo appena pulito e mi stupivo del fatto che fossi stata io a farlo. Il tutto con gesti estremamente semplici, come prendere un oggetto e metterlo in una busta. Mi sono resa conto di quanto si possa fare tanto e di come insieme si possano raggiungere grandi risultati. Eppure, così come una piccola azione aveva portato a fare tornare tutto pulito, allo stesso modo ho maturato quanto quell’orrore ecologico avesse preso forma a partire da altre terribile piccole azioni reiterate nel tempo. Anche in questo caso ho capito lo straordinario potere dei piccoli gesti. Nel bene e nel male. Mi sono resa maggiormente conto del mio impatto, ma anche dell’impatto delle nostre azioni più banali, che possono essere positive o negative. Di certo raccogliere è un’azione che mi ha messa direttamente in contatto con la realtà, che in Occidente siamo troppo abituati ad osservare, a tenere lontana, così insicuri rispetto al fatto di poterla cambiare, di dover chiedere il permesso per ogni cosa, per interagire con essa. Talvolta ci si sente anche timidi e osservati nel compiere un’azione del genere. Mentre farlo con gli altri, indossando una casacca che indica la tua associazione, dona forza, facendoti provare quasi un senso di legittimazione. Può sembrare un ragionamento sciocco, ma è una sensazione che ho provato spesso in Italia. 

Mentre pulivo la spiaggia, però, più pulivo, più plastica vedevo, più il mio sguardo cambiava, più notavo l’impatto della plastica, più notavo quanto fosse sistemico il problema. E quando ho cominciato a cercare di raccogliere i pezzetti della plastica che si frantumava tra le mie mani appena la raccoglievo per l’usura del sale, ho cominciato a sentirmi incredibilmente piccola. Mentre raccoglievo mi rendevo conto che le mie azioni non bastavano. Che non serviva a niente raccogliere senza impattare sul sistema di pensiero, sulle abitudini. Mi sono sentita impotente e triste e alle prese con qualcosa di più grande di me, perché la plastica era diventata così sottile, si era a tal punto frammentata, che spesso andava oltre la mia capacità di raccoglierla. Questa esperienza mi ha dato la possibilità di comprendere l’impatto e la gravità della crisi ambientale e della gravità del problema in Tunisia. 

Ma parlando di azioni, del compiere un’azione, del cominciare ad agire, ad un certo punto, è successa una cosa particolare, che mi ha molto colpita e mi ha fatto riflettere sull’impatto che abbiamo sugli altri. Stavo raccogliendo della plastica da sola, in un punto vicino alla strada. Ero avvilita. Era troppa e io non avevo gli strumenti tecnici necessari per andare in profondità e pulire davvero quell’area. Ad un certo punto mi si avvicina una ragazza di 12 anni con suo fratello di 6 sulla sua bicicletta. Mi chiede qualcosa in francese. Io non capisco. Poi con i gesti mi fa capire che vuole aiutarmi. Mi chiede una busta e lei e suo fratello cominciano a raccogliere con me. Mi seguono, aspettano che io dica loro dove pulire, cosa fare. Cominciano a chiedermi un guanto. Eccolo lì, il potere di un gesto.  Lì ho capito che il semplice gesto di “cominciare” cambia le cose. Cominciare a pulire la spiaggia, dare il mio esempio, aveva spinto altri locali a farlo, magari accendendo anche la loro consapevolezza. Spesso cerchiamo solo il coraggio e la compagnia giusta per cominciare, per agire sulla realtà, ma non ci rendiamo conto che possiamo essere noi il motore del cambiamento. Senza preoccuparsi di nulla si lanciavano nelle aree più inquinate per raccogliere. Ad un certo punto mi sono preoccupata perché il bambino era scalzo e, nonostante questo, si addentrava in aree molto sporche pur di pulire. L’ho fermato e trovato il modo di dirgli che non poteva farlo senza scarpe. Così lui è andato via ed è tornato con delle vecchie ciabatte in plastica molto più piccole dei suoi piedi. Quel gesto mi ha incredibilmente colpita. Pur di pulire la spiaggia, pur di aiutarmi (e questo elemento comunitario del fare delle azioni in gruppo è stato fondamentale per spingere ad agire), lui ha scelto di indossare delle calzature di fortuna. Ho provato a fargli una foto senza farmi vedere, perché quel gesto simboleggia tutto: il fatto che se si vuole si trova il modo; il desiderio dei ragazzi di darsi da fare e agire in una collettività per la salvaguardia dei territori; come ogni cosa cominci dalle piccole azioni. Quel bambino è stato il mio idolo e mi ha insegnato ad trovare il coraggio di cominciare, perché ci sono solo persone che aspettano noi per fare lo stesso. Sono certa che quei ragazzi amassero le loro spiagge ma forse anche loro si sentivano intimoriti all’idea di prendere l’iniziativa. È insieme che si trova il coraggio di cambiare le cose. L’inquinamento da plastica è stato anche il tema principale del video/reportage che ho realizzato con le mie compagne italiane e esplorare questa triste realtà della Tunisia, nonché dedicarmi ai filmati e al montaggio che è stato il mio compito, mi ha donato tantissime consapevolezze.  Tutte queste esperienze mi hanno insegnato che bastano piccole azioni per cambiare le cose, per ispirare, per dare agli altri. È accaduto con i bambini in biblioteca e con bambini che passavano sulla spiaggia. Sulla sostenibilità ho compreso che solo entrando in contatto con la realtà prendi davvero coscienza delle problematiche da affrontare: fino a quando non raccogli con le tue mani la spazzatura, per quanto consapevole e sensibile, potresti percepirla come un quadro da guardare e non una realtà che puoi cambiare. Ma comprendi anche che raccogliere non basta, perché agire da soli non basta.  Agire nella comunità è fondamentale, comprendere il modo in cui le persone percepiscono il loro territorio è la chiave per attuare un cambiamento con le comunità. Le numerose interviste che abbiamo fatto, parlando con persone proveniente da tutta la Tunisia rispetto all’emergenza di inquinamento da plastica, ci ha permesso di conoscere il livello di consapevolezza della comunità. Di certo mi sono resa conto di quanto sia importante la sinergia tra questi elementi. È importante lavorare sulla sensibilizzazione (come abbiamo provato a fare con il nostro video/reportage), ma anche coinvolgere nelle attività di bonifica e accogliere le proposte dei locali. Le comunità hanno bisogno di entrare in contatto diretto con il loro territorio, così che questo acquisisca sempre maggior valore e significato per loro, il motore più potente del cambiamento, e loro diventano sempre più consapevoli del loro impatto sugli ecosistemi. Ho imparato questo: quanto sia importante portare le persone nella realtà delle cose oltre a raccontarle. Parlando di patrimonio culturale e ambientale, nel nostro video abbiamo cercato di trasmettere l’idea che il primo patrimonio di una comunità sono i suoi ecosistemi e speriamo di essere riuscite a trasmettere il nostro messaggio, perché, nella nostra esperienza della Tunisia, ci siamo rese conto che l’ambiente è un elemento fondamentale della bellezza del paese.

La preghiera del mauzzin e la cultura tunisina

Uno dei ricordi più belli che ho della mia esperienza in Tunisia è nella medina di Sousse. Ero lì con le mie compagne di stanza,  seduta a un tavolino a mangiare un mlawi, tra i cibi più tradizionali del paese. Davanti a me le mura della moschea principale. Era il tramonto, i negozi stavano abbassando le saracinesche. Improvvisamente dalla moschea si alza la preghiera del mauzzin che intona la professione di fede, invitando i fedeli a raccogliersi in preghiera. Pochi ricordi sono vividi come questo. In quell’istante mi sono immersa nella presenza di quel momento. Stavo assaporando, ascoltando e abitando pienamente la Tunisia. L’incontro con il mondo arabo è stato incredibile ed emozionante. Di fatto non mi ero mai spinta oltre le culture europea, quindi non avevo mai cambiato così radicalmente prospettiva sul mondo e sulla vita.          Il canto dei mauzzin resta uno dei miei ricordi più belli e anche ciò che più mi manca. Non dimenticherò mai la prima volta che l’ho ascoltato nel cuore della notte, o meglio, alla prime ore del mattino, gli ultimi giorni a Tunisi, sempre profondo, forte, ma più sussurrato, che ti svegliava lasciandoti in dormiveglia e caricando la realtà di una sacralità profonda che nel mondo così veloce e distratto dell’Europa raramente sento. È uno dei più bei buongiorno che io abbia mai vissuto nella mia vita. È stato come un sogno ad occhi socchiusi, con la preghiera che quasi sembra una ninna nanna, una melodia che ti avvolge e sai essere rivolta a chiunque l’ascolti. Per quanto io sia cristiana quel canto mi faceva sentire coinvolta, insieme agli altri, in un momento collettivo in cui il pensiero di tutti, di qualsiasi religione, almeno per un momento, si spostava sul divino. Ho amato profondamente i minareti delle moschee, le grandi torri da cui si alzava questa preghiera che per me era come un canto. Mi davano un punto di riferimento nelle città. Mi orientavano. E, soprattutto, mi confortavano perché mi ricordavano i campanili delle chiese. Amo molto ascoltare le campane, soprattutto in lontananza, quindi, per me, ascoltare il mauzzin si caricava anche di un altro significato: ero in un paese arabo, non c’erano campane, quel suono che tanto mi ha confortata nella mia vita; ero lontana da casa e questo era parecchio emozionante.  Se dovessi dire cosa ho amato di più della Tunisia, cosa ha toccato più profondamente il mio cuore, direi di certo questo: il minareto e la preghiera del mauzzin. Familiari ed estranei allo stesso tempo, mi hanno donato un altro modo di sentire il sacro, arricchito il mio modo di credere e mostrato un altro tipo di devozione, un altro modo di rendere presente di Dio nella propria vita, che, venendo da un paese tanto laicizzato come l’Italia, ha avuto un forte impatto su di me. 

Il mio incontro con la cultura tunisina è stato multisensoriale. Ciò che ho compreso soprattutto una volta a casa, anche confrontandomi con i turisti incontrati sull’aereo di ritorno, è che il volontariato ti da’ la possibilità di immergerti e conoscere una cultura in maniera assolutamente unica. Quando sei volontario non vai a visitare i luoghi, vai ad abitarli. Il significato della parola “abitare” non è mai stato così chiaro per me. Ho di fatto vissuto come una locale. Ho mangiato quasi tutte le pietanze tipiche del luogo, sperimentando tutte le tipologie di piccante e, soprattutto, la mia resistenza ad esso, oltre ai suoi effetti collaterali soporiferi sul mio corpo di cui non ero consapevole. Ho provato il Mlawi, il Chappati, il Brick (il mio preferito), tantissimo Cous Cous (che fino ad allora non avevo mai provato), e tante altre cose di cui non conosco il nome e mi sono stupita di quanto lì mi sembrasse normale mangiare frittata con il tonno. Ho imparato a creare insalatine interessanti, con melograno, cetrioli, mela e, soprattutto, conosciuto il potere straordinario della menta. Adesso sono capace di fare accostamenti che prima non avrei mai immaginato.  Tutti quei sapori già mi mancano e resteranno parte di me per sempre. Posso dire che un po’ di Tunisia vive in me e la porterò per sempre con me. E il cibo è uno dei modi più belli per conoscere una cultura. Ci parla del territorio, dei prodotti locali, del rapporto con il mondo animale e vegetale, della storia di un paese. Sinceramente non ho mai provato datteri migliori di quelli delle oasi di Nefta e di Tozeur. Non dimenticherò mai la prima volta che ho provato un dattero. Stavamo attraversando l’oasi di Nefta e dei raccoglitori ci ha regalato un grandissimo grappolo di datteri. Ho immortalato il mio primo morso con gran gioia. Cosa c’è di meglio che provare un dattero appena raccolto nel bel mezzo di un’oasi nel deserto del Sahara. Adesso che ci penso mi rendo sempre più conto della straordinarietà di ciò che ho vissuto. Lì per lì non te ne rendi conto. È tutto così improvviso e intenso.

Il Tunisia ho compreso la ricchezza del latte che non trovavo sempre al supermercato e la mattina mi alzavo presto per andare a cercarlo perché alle 10 era già tutto esaurito. Ho ricordato la ricchezza delle comodità di una casa, quando l’acqua veniva staccata alle 17 per i problemi di siccità che il paese ultimamente ha dovuto affrontare. Così la raccoglievo durante il giorno e tutte quelle comodità così date per scontato in Europa sono diventate improvvisamente ricchezza. La pigrizia a cui spesso capita di lasciarsi andare in Europa, la possibilità di avere tutto sempre a disposizione, il latte, l’acqua, il pane, la varietà di verdure che abbiamo, lì non era scontato, lì tutto il tanto che abbiamo in Europa l’ho percepito come un dono, come mai nella mia vita. Quando sono tornata a casa in Italia mi sono sentita stordita, sconvolta, ma arricchita. Trascorrere tanto tempo nel Maghreb aveva cambiato radicalmente la mia prospettiva sul mondo e sulla vita. Ho guardato e osservato in maniera diversa il capitalismo di cui ho scoperto essere tanto malata l’Italia. Ho percepito nell’immediato il tanto che abbiamo come troppo, come eccessivo, come assuefante. Il troppo fa ammalare. Ci fa perdere di vista ciò che conta nella vita. E assaporare una vita più autentica, ma anche una vita in cui purtroppo si vedono ancora difficoltà e povertà, una realtà il cui ricordo in Italia lo possiedono solo le nostre nonne, mi ha aiutata a guarire dalla frenesia contemporanea. A mettere le cose in prospettiva e, di certo, a comprendere che preferisco una vita più autentica, grata, ricca di contatto e umanità, anziché una vita falsa, di consumo e piaceri eccessivi.

 La Tunisia mi ha donato anche nuovi suoni, nuove musiche e ho avuto la fortuna di partecipare ad un matrimonio tunisino, che mi ha mostrato l’importanza dei riti in questa cultura. Grazie ai workshop e alle esperienze di viaggio ho sperimentato nuove possibilità e abilità. Ho praticato l’intreccio delle foglie con le artigiane dei luoghi ed, essendo già abituata ad intrecciare la lana come mi ha insegnato mia nonna, oltre che un amante dell’artigianato, è stato particolarmente speciale come esperienza per me. Quando l’artigiana ci ha poi fatto assaggiare il cous cous che aveva preparato a casa è stato emozionante. Un’esperienza condivisa, semplice, vera. L’immersione che ti permette di vivere il volontariato, infatti, è lontana dalle immagini e dai prodotti patinati offerti dal turismo. Hai la possibilità di incontrare la vita vera della persone e, per qualche minuto, esserne parte. Impari anche a portare con te questo modo di approcciare ai luoghi, che  non appartiene al turista ma al viaggiatore. Effettivamente sì, essere volontari ti fa diventare un vero viaggiatore, capace di abitare i luoghi, con rispetto e ascolto dell’altro. 

 Inoltre ho anche partecipato con gli altri alla preparazione del cous cous, e soprattutto del brick che amo tantissimo; imparato le danze tradizionali e imparato le basi della lingua araba tunisina. Ho incontrato mille sguardi, sorrisi, vite, storie. Non dimenticherò mai tutti i luages che ho preso e la prima volta che sono tornata a casa da sola rivolgendomi al conducente in arabo. Mi sono sentita davvero parte di quella comunità. E solo dopo ho capito che tutte quelle emozioni provate non erano scontate. Spostarsi, mangiare nei luoghi tipici e meno conosciuti, così come abitare le zone residenziali come un nativo non è un’esperienza che fanno tutti, e cambia totalmente la tua conoscenza della cultura, così come imparare a usare la moneta. Mi scambiavano spesso per tunisina e questo mi ha fatta sentire ancora più immersa in quella realtà in cui avevo la possibilità di non essere considerata una straniera, almeno fino a quando non parlavo troppo xD, ma proprio grazie al non appartenergli potevo guardare con quello “sguardo da lontano” di cui parla Lévi-Strauss che ci permette di vedere la bellezza più profonda delle culture, lì dove spesso i nativi, abitandola, non ne sono del tutto consapevoli. La Tunisia è stata un tripudio di colori, profumi e usanze.  Allo stesso modo allontanarsi dalla proprio cultura ti riporta ad abitare il tuo paese con uno sguardo rinnovato e innamorato e a capire quanto sia  fondamentale salvaguardarlo e raccontarlo, come altri hanno fatto con te, raccontandoti la loro cultura, i loro luoghi e ciò che più amano della loro terra. 

Il progetto Take Action in Sousse – TAS è un progetto co-finanziato dal Programma Corpo Europeo di Solidarietà dell’Unione Europea.