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[:it]Come posso restituire un volto a chi ha lottato contro l’oppressione ma che è morto prima di vedere la giustizia prevalere?[:]

[:it]Un breve racconto inviatoci e tradotto da Cristina Russo, volontaria ESC al progetto “ESC volunteers in Gaziantep: Be Active for Community Integration“, a seguito di una intervista fatta con gli altri volontari con un uomo siriano conosciuto a Gaziantep.

Il progetto è co-finanziato dal Programma Corpo Europeo di Solidarietà dell’Unione Europea.

Come posso restituire un volto a chi ha lottato contro l’oppressione
ma che è morto prima di vedere la giustizia prevalere?

Nel 2011 ero a Dubai, ero un freelance, sono un freelance, ma soprattutto sono un siriano. Dopo qualche mese dall’inizio delle proteste ho sentito il bisogno, la necessità, il dovere, di ritornare in
Siria per essere con chi, e dare voce a chi stava cercando di costruire la libertà e un paese semplicemente diverso. Io e i miei amici abbiamo iniziato a postare sui media le immagini del popolo che esigeva la libertà, e far vedere al mondo ciò che il regime di Bashar al-Assad aveva costruito: inuguaglianza, frustrazione e silenzio, lo stesso silenzio che ora si stava spezzando.

Alcuni dicevano, cosa stai facendo? Cosa pensi che i tuoi video e il tuo supporto porteranno al nostro paese? Tu stai distruggendo il nostro paese, tu insieme agli altri.

Ancora non si aveva a pieno la consapevolezza di quello che stava succedendo o che sarebbe successo, ma sapevo una cosa, una cosa sola era certa, io non stavo distruggendo il mio paese, io stavo attaccando il paese del governo.

Durante i primi mesi delle proteste amici, studenti, giornalisti, il popolo manifestava pacificamente nelle strade. Il governo al-Assad ha applicato una prima strategia di cordon-and-search offensive operation. Isolava i centri urbani usando le security forces e cercava di individuare gli attivisti e i manifestanti. Noi ci nascondevamo nelle foreste durante la notte e le nostre case restavano vuote e silenziose. Un giorno la strategia è cambiata. Il governo ha semplicemente detto STOP. I manifestanti sono iniziati a cadere, uno dopo l’altro, i volti sono iniziati a scomparire e la rabbia a crescere. Alcuni manifestanti iniziarono ad usare delle armi che avevano nelle loro case. Da questo momento tutto è cambiato.

Assad ha iniziato a risponderci con carri armati, con l’esercito altamente equipaggiando. Non sapevo cosa fare, loro avevano i carri armati, noi il popolo e delle armi da caccia. Decido di scappare, per una settimana scompaio dalla mia città. Ritorno ed è tutto vuoto, non una voce di dissenso, non una manifestazione. Il silenzio era ritornato e le voci di quaranta persone della mia città scomparse per
sempre.

All’inizio del 2013 l’esercito di Assad si ritira dalla mia città. Le proteste ricominciano, la gente scende per strada, la mia videocamera si aggiunge a quella degli altri, tutti a firmare e documentare cosa volevamo, cosa stava succedendo e cosa era successo, per far vedere al mondo che noi resistevamo. All’inizio pensavo che il mondo ci stesse guardando, che il mondo vedendo quelle atrocità, quei crimini, sarebbe arrivato. Ci sentivamo liberi e vittoriosi, ma era una bugia, era una illusione, e nessuno arrivò.

I carri armati ritornarono e la situazione si complicò. Le proteste divennero più strutturate e organizzate, con il supporto del FSA. Un giorno, durante una operazione di attacco a una base di Assad, qualcuno del FSA mi disse: vieni con noi. Io non sapevo che fare, per la prima volta da quando ero tornato. Andai con loro, ma sentivo che stavo andando a morire. Da quella operazione solo in quaranta torneremo a casa. Fu allora che compresi per la prima volta una agghiacciante verità: le proteste erano diventate una guerra.

Nel 2014 la situazione cambia ancora e penso che accada il più grande errore sin dall’inizio delle proteste. All’inizio mi fidavo del FSA, alcuni di loro li conoscevo da un tempo lontano, erano amici,
volti conosciuti che erano lì per proteggere i protestanti, per proteggere noi. Alcuni di loro resistono ancora nel mio cuore, come eroi. La difesa diventa attacco e, da non so dove, forse dall’alto, forse dall’inferno arrivano i gruppi islamisti. Noi non volevamo il loro aiuto, non mi fidavo di loro. E tutto divenne solo violenza contro violenza. La mia città si chiuse in un perimetro scandito da carri armati e armi. Bambini, donne, anziani, Tutto, ogni cosa diventa il target di Assad. Tutto diventa militari contro militari, caos e morte. Un altro errore.

Alcuni dicono che sono un illuso, come potevo pensare di vincere una guerra senza armi e senza un esercito? Semplicemente, io, non volevo che si generasse una guerra, io volevo fermarmi prima, volevo fermarmi alle proteste pacifiche. Eravamo circa 20 milioni di persone in Siria, potevamo farcela.

Dopo il 2014 la situazione divenne sempre più complicata. C’era al-Nusra, Al-Qaida , Daesh, il FSA, forze dall’Afghanistan, Hezbollah, gruppi iracheni, l’esercito governativo, le truppe statunitensi, quelle russe. Io andavo semplicemente in giro per filmare il mio paese che era diventato irriconoscibile. Mi fermavano per strada e ognuno aveva qualcosa da dire sulla mia barba. Troppo corta, troppo lunga. La Siria non era mai stata così.

Sin dall’inizio delle proteste alcuni si spostavano da una città all’altra. Quando nessun posto in Siria era più sicuro il mio popolo ha iniziato ad attraversare i confini. Sin dal 2012 molti attraversarono il confine con la Turchia. Ed io? Io non sono un soldato, non so combattere e molti come me non erano soldati, ma rispondevamo tutti NO, devo stare qui. Devo restare qui. Se vado via, se tutti i siriani vanno via, nel mio paese resterebbero solo il governo di Assad, i suoi sostenitori e il terrorismo. Non posso farlo succedere. Io non sono Iron Man, non sono invincibile. Basta un secondo e per la volontà di qualcuno sono morto. Ma io credo di essere forte perché credo di credere ancora nella rivoluzione.

Ma un giorno non ero più solo un giornalista e un siriano. Sono diventato padre. E ho iniziato a sentire paura, una paura diversa rispetto a quella che ho provato quando mi hanno rapito. Non potevo
rischiare più, non potevo sopportare il pensiero di poter perdere la mia famiglia. Le scuole in Siria erano chiuse o troppo pericolose, non potevo dare una vita alle mie figlie. Ed è in quel momento che
ho deciso di venire in Turchia.

In Turchia ho incontrato diversi Siriani. Penso che oggi i Siriani siano divisi in tre categorie. C’è chi vuole andare maledettamente in Europa, perché vede lì un futuro migliore. C’è chi conserva ancora
la speranza che potrà tornare, un giorno, nella propria casa. E c’è chi non vede il futuro. C’è chi vive alla giornata e a cui non importa la Turchia o l’Europa o la Siria, non il domani, solo il sopravvivere oggi. A loro non interessa l’educazione, non interessa mandare i figli a scuola o imparare una lingua o qualcosa per avere un futuro. Loro sono persi.

Io diventerò vecchio, tra cinque anni avrò 50 anni e quando guardo alle mie bambine voglio che siano loro la prossima Siria. Perché un giorno la guerra sarà finita e loro dovranno ricostruire. Non devono dimenticare di essere siriani, per questo insegno l’arabo alle mie bambine. Per questo gli rispondo quando mi chiedono cosa è la Siria e dove sono i loro nonni, perché voglio che conoscano il proprio paese. Mi chiedono spesso dove sono i loro nonni, io gli rispondo che sono in grossi tendoni. Loro pensano che stiano facendo un campeggio, e vogliono andare da loro perché è divertente campeggiare.

Vedo anche altri bambini in Gaziantep, non sono miei, sono della strada, non hanno educazione, non sono integrati, hanno solo un lavoro sottopagato per aiutare la famiglia. Anche loro sono la futura Siria, ma loro sono persi in Siria e in Turchia, loro sono la lost generation.[:]