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Il volontariato ESC di Beatrice

Beatrice ha partecipato al progetto “GIVE 3 – Gaziantep Inclusion by Volunteers from the EU”, co-finanziato dal Programma Corpo Europeo di Solidarietà dell’Unione Europea.

GIVE 3 coinvolge in totale 40 volontari italiani e turchi in attività di orientamento sociale a Gaziantep rivolte alla comunità, ai bambini e giovani siriani e turchi. Il progetto vuole quindi contribuire alla creazione di un dialogo  aperto che porti a un atteggiamento più inclusivo .

«Cosa vi ha portate qui? Perché proprio a Gaziantep?» «Ah sì, forse è solo che siete europee e non avete bisogno di visto. E poi per voi qui costa pure poco». È un ragazzo dello staff locale a farci questa domanda, noi a Geged siamo appena arrivate. È lo stesso ragazzo, poi, a rispondersi. Noi: noi siamo cinque ragazze italiane, confluite qui da città e storie diverse. Abbiamo, però, le stesse motivazioni: incontrare quello che abbiamo studiato (lingue o relazioni internazionali, nella maggior parte dei casi), poter personificare (visualizzandone volti e nomi) parole astratte come “migrazioni“. Farle tornare persone a cui stringere la mano, de-stigmatizzarle. Eppure, silenzio: per una manciata di lunghissimi secondi queste nostre collaudate motivazioni si fanno più deboli, si opacizzano – e a lui non sappiamo come controbattere. Sorridiamo forzate per la battuta e abbassiamo lo sguardo: rimangono solo i nostri privilegi e il nostro imbarazzo. Sarà spesso così, come quel giorno sull’Eufrate quando da una barca turistica ci hanno trasbordate su una privata: prima c’erano le famiglie turche in gita, le mani rugose dei più anziani appoggiate alla balaustra e i fazzoletti rosati delle donne; poi, il nostro privilegio soltanto – e i bambini che lavoravano per noi (come per tutti, qui). Loro tiravano le funi, noi strizzavamo gli occhi per i riflessi del sole e sulla barca ci prendevamo ognuna il proprio spazio, il proprio silenzio divelto dal vento. Pensavamo, probabilmente, tutte alle stesse cose – alle ingiustizie a cui stavamo dando una quotidianità, un’inflessione, e ancora una volta un nome. Nello specifico, i loro nomi. Memik: come di chi ha il passaporto turco e la fidanzata rumena, ma non può andare a trovarla là. Primo, seguire la procedura: pagarsi i viaggi per l’ambasciata ad Ankara e, preventivamente, i biglietti. Fornire motivazioni, giustificazioni, coordinate bancarie, un garante rumeno. Secondo: vedersi il visto rifiutato per “lack of trust” (mancanza di fiducia), perdere tutti i soldi. Infine: ripetere tutto per tre volte. Oppure Mahir: come di chi è siriano, ma di minoranza turcomanna. E dalla Siria non è riconosciuto nella sua identità etnica, e dalla Turchia non è riconosciuto nel suo status di rifugiato. Praticamente, un apolide. Oppure ancora Bubu: come di chi, siriano, dovrebbe essere considerato “rifugiato” – e invece ha una “protezione temporanea” che gli limita i diritti e, praticamente, anche l’ossigeno. Se sei come Bubu sei come la maggior parte dei siriani qui, e non puoi neanche spostarti da una città all’altra. Anzi, prova a chiedere un permesso apposta – magari per lavoro. (Primo, seguire le procedure). Noi invece di procedure ne abbiam dovute seguire davvero poche, per arrivare qui. Addirittura semplificate, grazie alla dimensione comunitaria del progetto (un Corpo Europeo di Solidarietà, ndr). E per entrare in Turchia ci basta addirittura la carta di identità nazionale.
Ecco, non siamo esattamente sulla stessa barca. È controproducente, per orgoglio di white saviours, implementare narrazioni color o privilege blinded, che arrivano a negare discriminazioni e privilegi in nome di una presunta uguaglianza globale. Non siamo tutti uguali: il colore della pelle conta, la lingua che parli anche. In questo pezzo di mondo, poi, in cui un mosaico caleidoscopico di minoranze è continuamente scalpellato dal nazionalismo dominante, ancora di più. Noi e loro, insomma, son due pronomi diversi e han senso usati così: negarli, è buonismo o cecità. Noi siam qua a esercitare il nostro privilegio, a far loro domande con espressioni pietiste, a non saper rispondere nè reggere i silenzi, a mancare i referenti, a illuderci coi livellamenti. Ma, soprattutto, a mischiare le carte. Sul tavolo della cucina di Geged, su quello più piccolo del cortile. In camerata, nel basement che è l’unica stanza fresca di questo posto.

Geged è l’Ong con cui facciamo volontariato – educazione informale, per la precisione. Insegniamo (e impariamo) l’inglese in classi che vanno dai 10 ai 30 anni, più che altro mettendoci in gioco (e, quasi sempre, in cerchio). Geged è, soprattutto, bora bora – la parola d’ordine che utilizziamo per tornare a parlare tutti insieme una lingua comune, che faccia da tramite. Perché qui siamo più di 20, e da 7 Stati diversi: Siria, Turchia, Italia, Ucraina, Georgia, Marocco e Tunisia. Quando non ho saputo rispondere a quella domanda (quella di apertura dell’articolo) ho pensato: ecco, loro hanno trovato “la maglia rotta della catena”, un cortocircuito nel sistema: non possono muoversi da questa città infame ma hanno sempre il mondo in casa, centinaia di internazionali all’anno, e sono mediatori interculturali più di noi che pensavamo di diventarlo studiando. Anche per questo esserci è mischiare le carte. E mischiare le carte non è che una pratica quotidiana fatta di scoperte, errori, e correttivi. È trovarsi a fare tre ore di bus in mezzo alle macerie, col tuo amico sul sedile accanto che potrebbe avere i traumi della guerra, o quelli del terremoto. È spiegare che la caffettiera non si lava col detersivo, e poi per sbaglio usarla per fare il kahve turco al pistacchio. Non poter scegliere “travels” (i viaggi) come argomento per le lezioni di inglese, che la metà della classe è siriana e in protezione temporanea. Capire che non ha senso chiedere a un turco o a un tunisino se quello che sta mangiando (e che vorrebbe farti assaggiare) è piccante. È stare in silenzio a guardare le stelle con Bubu, che era 18 anni che non vedeva il mare e invece questa volta a sorpresa ha ottenuto il permesso per farsi quelle tre ore di pullman con noi, venire con noi a campeggiare in spiaggia. È Bubu che ora ha aggiunto “Novara” alla lista della toponomastica italiana che assurdamente conosce (insieme a Bassano del Grappa e San Giorgio in Liguria) – lui che sarebbe voluto essere qui quando a Nòva hanno fatto il concerto di Omar Souleyman. 

Beatrice Forlini